Pubblichiamo il racconto premiato al Concorso NarraZione edizione 2018
Letizia Lo Schiavo
Niente, o tutto
"È un vecchio in piedi a poppa di una
nave. Stringe tra le braccia una valigia leggera e un neonato, ancor più
leggero della valigia. Il vecchio si chiama signor Linh. È il solo a sapere il
suo nome perché tutti coloro che lo sapevano gli sono morti intorno. In piedi a
poppa dell'imbarcazione, guarda il suo paese che si allontana, il paese dei
suoi avi e dei suoi morti, mentre il bimbo dorme tra le sue braccia. Il paese
si allontana, diventa infinitamente piccolo, e il signor Linh lo guarda sparire
all'orizzonte, per ore, nonostante il vento che soffia e lo sballotta come un
burattino. Il viaggio dura a lungo. […] Una cinghia serra la valigia perché non
si apra, come se dentro vi fossero beni preziosi. In realtà contiene soltanto
indumenti usati, una fotografia che la luce del sole ha cancellato quasi
completamente, e un sacchetto di tela in cui il vecchio ha infilato una
manciata di terra. È tutto quello che ha potuto portar via. Oltre al bimbo,
naturalmente."
Non si sentiva particolarmente a suo agio sull’imbarcazione
e, anzi, se avesse potuto, sarebbe sceso immediatamente.
Ma non poteva.
Intorno a lui si accavallavano risate e chiacchiere degli
altri passeggeri, che nonostante tutto riuscivano a vivere serenamente senza
rimorsi o remore.
Il signor Linh avrebbe preferito osservare tutto dall’esterno,
come l’unico silenzioso spettatore della via impervia che stava prendendo la
sua vita. Anche se definirla solo “impervia” era un eufemismo, doveva
ammetterlo.
Ammettere le cose a se stesso era stato uno dei momenti
più difficili che gli fossero mai capitati, soprattutto quando si era ritrovato
a compiere la scelta che avrebbe determinato la sua esistenza.
Sapeva, però, una cosa: non sarebbe mai riuscito ad andare
avanti con tanta facilità, alzandogli occhi al cielo e lasciandosi ardere la pelle
dal sole, cercando le costellazioni di notte, ascoltando o intervenendo nelle
conversazioni altrui. Non ci sarebbe riuscito, per colpa del groppo in gola che
gli avrebbe fatto nascere le copiose lacrime che gli avrebbero rigato il volto,
per colpa di un peso sulle spalle che lo avrebbe piegato e, infine, spezzato.
Il freddo non lo sentiva più di tanto: la sua stessa anima
era ormai grigia e gelida, devastata dalle morti che i nazisti avevano lasciato
sul loro cammino.
Ricordava ogni singolo istante, ricordava di essere sempre
stato visto come uno di cui sospettare, perché racchiuso in un limbo che non
permetteva di decifrarlo.
Un tempo non era stato solo aveva fianco a fianco con tre
donne e un uomo che avevano svolto un ruolo fondamentale nella sua vita. Suo
figlio maggiore non dispensava molto affetto, era diventato un fervente
sostenitore dei dettami del Führer, sua moglie era una donna succube della
sfortuna e del disprezzo che il Fato le aveva riservato, incapace di
ribellarsi, e le figlie minori sembravano vivere in un altro mondo, dove non
avevano mai avuto davvero a che fare con la dura realtà.
La famiglia Linh aveva ceduto senza combattere, si era
arresa senza guardare oltre le imposizioni del regime nazista che si stava
impossessando della Germania.
Ma lui non capiva, apparteneva davvero della razza
“Ariana”? Era forse superiore ad un italiano, un inglese, uno spagnolo, un
francese, un americano? Cosa aveva in più? Aveva una voce più melodiosa, un
portamento regale, una risata cristallina? Era ricco, bellissimo o talentuoso
in qualsiasi cosa facesse?
No, non si sentiva all’altezza, non si reputava un dio;
anzi, che collegamento poteva avere lui, goffo e timido, con la tanto decantata
razza superiore da cui era circondato?
Avrebbe voluto porre queste domande a qualcuno che sapesse
rispondergli, ma desiderava una risposta concreta, reale, basata su valori
solidi: cosa importava a lui se il suo vicino di casa aveva la pelle mulatta o
se il panettiere non veniva in chiesa tutte le domeniche?
Gli interrogativi lo attanagliavano, gli provocavano
nausea, mal di testa, gli serravano il cuore in una morsa gelida, senza la
possibilità di liberarsi.
E lui voleva solo questo: libertà.
Per anni era rimasto legato ai valori dei suoi avi, mente e corpo abituati a rigidità e freddezza,
addirittura cinismo e provava solo disgusto verso se stesso.
Poi una realtà, già, atroce era definitivamente
precipitata nel baratro con ľavvento delle leggi razziali che adesso
annebbiavano i sensi delle persone.
Aveva visto la sua famiglia schierarsi dalla parte del
Terzo Reich, senza batter ciglio.
Lui no.
Silenziosamente, in punta di piedi, aveva riflettuto
durante lunghe notti passate insonni, si era estraniato dalle conversazioni
degli entusiasti che esaltavano il Führer, si era guadagnato molte antipatie
pericolose. E infine aveva preso la sua decisione.
Osservò con malinconia la sua Germania scomparire oltre la
linea delľorizzonte, la sua terra natia che nonostante tutto amava; ma un amore
amaro e avvelenato, macchiato da un odio che non rendeva giustizia alla sua
patria.
Soffriva, si mordeva le labbra per non lasciare che le
lacrime gli rigassero il viso: aveva giurato di essere forte e non poteva
scoppiare a piangere proprio nel punto della svolta. Una parte di lui voleva
ardentemente tornare indietro, voleva far visita un'ultima volta alla tomba dei
suoi genitori.
Ma tra le braccia teneva il motivo per cui non poteva
farlo.
Ricordava il giorno in cui aveva deciso di fuggire, di abbandonare la famiglia, gli occhi
di coloro che amava ormai erano vuoti, la distanza incolmabile. Ci aveva
provato con tutte le forze, sì che ci aveva provato, e la colpa di non averlo
fatto abbastanza lo torturava: si sentiva un pazzo al pensiero di aver compiuto
una tale azione, voleva morire, non lo accettava; ma pian piano ľidea si
delineò nella sua mente, sempre più atroce, sempre più folle, sempre più
realizzabile...
Non aveva preso molto, perchè dentro di sè conservava
ancora la speranza segreta che un giorno sarebbe potuto tornare a casa, ma
aveva salvato un bambino.
Non lo conosceva, sapeva solo due cose: si chiamava Ludwig
e lui, signor Linh, lo avrebbe protetto fino alla morte.
I genitori del piccolo, ebrei, erano consapevoli che non
avrebbero resistito a lungo e, dopo aver intuito, dai suoi comportamenti, ľ opposizione
al nazismo e la sua intenzione di fuggire, glielo avevano affidato senza troppe
cerimonie.
Il signor Linh, al solo ricordare le lacrime e le
preghiere della coppia, abbassò lo sguardo e il senso di rammarico in lui
aumentò.
Voleva fermare tutto quello, voleva mettere fine alla
sofferenze, al dolore, alla fame, alla povertà, alla disperazione; voleva
aprire gli occhi delle persone, voleva svegliarle dal torpore, voleva fare di
più.
Era come se il petto fosse squarciato con una lama
affilata, i polmoni non racchiudevano abbastanza aria e il cuore, neanche a
dirlo, non sopportava più gli sguardi rassegnati di chi già conosceva la
propria fine: li sentiva pesare su di lui come un macigno, avrebbe voluto urlare,
sbattere i piedi, sfogarsi.
Ma non sarebbe servito a nulla, perchè lui era solo una
persona come un'altra. Tutti volevano qualcosa, tutti si sentivano impazzire se
non la ottenevano, e non importava se il suo era un nobile ideale di giustizia.
Si sentiva debole, nonostante tutto, come un fuscello al vento.
In Germania sarebbe solo finito ammazzato, probabilmente
l’America era la soluzione migliore. Avrebbe dato un futuro a quel bambino e,
forse, uno anche a se stesso.
Avere un futuro, nel suo caso, significava dimenticare il
passato: ci sarebbe mai riuscito?
Magari per lui non c'era futuro, il passato lo aveva
segnato e il presente era incerto.
Sapeva che quella nave rappresentava tutto per Ludwig e
forse anche per lui.
Chiuse gli occhi, stringendo a sè il neonato.
Ľumanità si stava autodistruggendo, come sarebbe stata
capace di redimersi?
Il Sole, in realtà, non era poi così caldo, ma chissà cosa
riservava il domani.
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